Guerre e crisi, 5% popolazione mondo con stress post traumatico
Psicologi, 'percorsi specifici per migranti e vittime violenza'
Nel mondo sette persone su dieci vivono nel corso della vita un evento traumatico e di queste il 14% può sviluppare un disturbo da stress post-traumatico, che si stima colpisca fino al 5% della popolazione mondiale. Un rischio concreto per le categorie più esposte come, da un lato, intere etnie in guerra e, dall'altro, gli operatori sociosanitari dell'emergenza che assistono gruppi e singoli individui. Inoltre, sempre più studi mostrano la trasmissione intergenerazionale del trauma, con effetti su donne, bambini e migranti. Il tema del trauma e delle sue conseguenze psichiche è stato al centro di una delle sessioni plenarie del 50/esimo congresso nazionale della Società Italiana di Psichiatria, in corso a Bari. Nel corso dell'incontro si è collegata dall'Ucraina Iryna Pinchuk, vicepresidente della Società Ucraina di Psichiatria, che ha illustrato le conseguenze sulla popolazione e, soprattutto, sui bambini del conflitto in corso. "Le immagini e i dati che arrivano dall'Ucraina non raccontano solo la distruzione delle città, ma anche le lacerazioni silenziose delle menti - ha spiegato Liliana Dell'Osso, presidente della Sip, ordinaria di psichiatria all'Università di Pisa -. Garantire standard internazionali di cura, formazione e tutela significa restituire dignità e futuro a chi sopravvive al trauma". Anche i dati sulla situazione africana sono drammatici. Il rapporto tra psichiatri che devono garantire la salute mentale e, soprattutto, le risposte specialistiche in condizioni di guerra, catastrofi umanitarie e carestie, è di uno per 1.500.000 persone. Su questo tema l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha elaborato sei punti per la prevenzione e l'intervento, sperimentati nei contesti più difficili. "Oggi sappiamo che l'impatto del trauma non si esaurisce quando tacciono le sirene o si varca un confine - sottolinea ancora Dell'Osso -. Le sue tracce si imprimono nella mente e nel corpo e, con il tempo, possono riaffiorare, con gli stessi segni e sintomi di vulnerabilità di chi ha vissuto la violenza, nelle generazioni successive, pur cresciute in contesti sicuri". "Per questo - conclude Emi Bondi, presidente uscente della Sip e direttrice del Dsm dell'Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo - la Sip chiede da tempo percorsi specifici e approcci integrati nei Dsm territoriali italiani che si trovano a fronteggiare migranti e altre categorie di soggetti che hanno subito gravi violenze".
W.Sim--SG